Creata per Vienna nel 1762, Orfeo ed Euridice di Ranieri Calzabigi e Cristoph Willibald Gluck rappresenta una pietra miliare nella storia del teatro musicale. Il celeberrimo lavoro, primo titolo della cosiddetta “riforma”, venne infatti concepito secondo canoni estetici e principi drammaturgici diversi rispetto all’operismo corrente, e inaugurò una stagione sperimentale che avrebbe trovato prosecuzione e sviluppo nelle successive partiture firmate dai due autori, Alceste (1766) e Paride ed Elena (1770). I tratti salienti del teatro riformato sono noti: il «tagliente divario» tra recitativo e aria viene lenito mediante l’esteso ricorso al recitativo accompagnato, il canto abbandona il virtuosismo gratuito per recuperare una misura intensamente espressiva, le forme convenzionali perdono la loro rigidità e assecondano le esigenze dell’azione, la partitura si arricchisce di interventi corali e coreutici di ascendenza francese. In Orfeo lo specifico genere d’appartenenza facilitò l’esplorazione di nuove soluzioni sceniche e sonore: non di una vera a propria opera si trattava, bensì di una “festa teatrale”, un prodotto, cioè, più compatto e più duttile, predisposto ad accogliere aggregati atipici e formule innovative.
La proposta spettacolare elaborata dal librettista di Livorno e dal compositore di Erasbach suscitò curiosità e polemiche in tutta Europa e conobbe una larga circolazione sia nei teatri di corte, sia sui palcoscenici pubblici a conduzione impresariale. Tuttavia le ridotte dimensioni della partitura costituivano un problema e rendevano necessario un adeguamento alle consuetudini produttive e fruitive. In alcuni casi Orfeo ed Euridice fu associato a un’altra pièce indipendente in modo da assemblare uno spettacolo di durata complessiva sufficiente. Altrove, e più spesso, l’originaria struttura drammatica ideata da Calzabigi e Gluck venne farcita con personaggi, scene e numeri musicali spuri, così da dilatarne le proporzioni fino alla misura di una normale opera in tre atti. Questa soluzione venne adottata da Johann Christian Bach quando si trattò di rivedere l’opera per Londra nel 1770, in un allestimento nel quale Orfeo aveva il volto e la voce dal celebre castrato Giusto Ferdinando Tenducci; successivamente la partitura londinese seguì il cantante in Italia, facendo tappa prima a Firenze nel 1771 e finalmente a Napoli nel 1774, dove subì ulteriori modifiche e innesti.
La forma assunta dall’opera in occasione dell’esecuzione partenopea, emblematica di un diverso orizzonte di gusto, è stata scelta per inaugurare la trentacinquesima edizione del Festival della Valle d’Itria di Martina Franca. Questo Orfeo dalla paternità plurima, eseguito per la prima volta in tempi moderni, è un lavoro interessantissimo, più vario che coerente, nel quale i segmenti gluckiani convivono e interagiscono con oggetti e stili eterogenei. Alcuni accostamenti risultano sorprendenti: la cupa trenodia iniziale del capolavoro viennese, ad esempio, è qui preceduta da un breve scambio dialogico in recitativo secco e da un’aria di Eagro dalla scrittura brillante; distantissima dalla concezione originale è poi la sortita solistica di Orfeo «La legge accetto, o dèi», piena di rutilanti acrobazie. Il risultato è un ibrido instabile ma affascinante, che l’elegante direzione di Aldo Salvagno attraversa con una lettura attenta e serrata. La regia di Toni Cafiero (che firma anche i costumi) è intelligente, fantasiosa, a tratti visionaria, e contribuisce a conferire allo spettacolo un ritmo avvincente; alcune trovate risultano di grande effetto: la corte infernale di Plutone e Proserpina, ad esempio, si trasforma in una specie di club sado-maso intriso di erotismo fetish; nel momento cruciale dell’incontro con le Furie, invece, Orfeo resta audacemente sospeso su di un instabile sfondo scarlatto.
Le scene di Eric Soyer, ispirate a una concezione lineare ed essenziale, conoscono sorprendenti evoluzioni funzionali nel corso della rappresentazione, svolgendo talvolta una funzione segnaletica per mezzo di grandi iscrizioni con caratteri mobili che evocano/esplicitano il contesto dell’azione (ma perché la dicitura che annuncia i Campi Elisi è «Eliseo»?). Il cast vocale risulta nel complesso adeguato. Il ruolo di Orfeo è decisamente il più impegnativo dell’intera partitura, sia per la quantità e l’estensione dei brani che per la varietà della condotta vocale; il controtenore François Razek Bitar, con il suo timbro scuro e pastoso, lo interpreta con sicurezza ed equilibrio, raggiungendo momenti di espressione toccante. Buona la prova di Daniela Diomede nella parte di Euridice, mentre non convince il sopranista Angelo Bonazzoli, pur applauditissimo, un Amore dal timbro stridulo e dall’emissione visibilmente sforzata. I ruoli secondari vedono impegnati Ernesto Petti (Eagro), con qualche problema di intonazione; Vincenzo Maria Sarinelli (Plutone), dalla presenza scenica efficace; Mizuki Date (Proserpina), agile e spiritosa; e Natalizia Carone (Erinni ed Euristo), precisa e pregevole. Un particolare plauso merita il Coro Slovacco di Bratislava, che restituisce con precisione e corposità le numerose pagine di canto collettivo (gluckiane e non) disseminate nella partitura.
Palazzo Ducale − Martina Franca (TA), 16 luglio 2009
Teatro